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La vita va così. Ma il cinema?

7 Nov 2025 | Cinema

Da troppi giorni rimugino questo post senza avere il coraggio di ammettere l’amara verità: a me parlare di questo film di Riccardo Milani fa un po’ soffrire. A Milani devo alcune delle pellicole a cui sono più affezionato (su tutte Auguri Professore, La guerra degli Antò e Piano solo), condivido con lui diverse affinità elettive (Giorgio Gaber, l’Abruzzo e Luca Flores, solo per citarne qualcuna) e una certa attenzione verso gli antieroi, quei Don Chisciotte della quotidianità che popolano i suoi lavori, simboli di un’umanità periferica e ostinata, costretta a battersi per ideali che sembrano fuori dalla logica del tempo. Insomma, io a Riccardo Milani voglio un gran bene. A La vita va così, purtroppo, no.

Sbrigo velocemente la pratica della trama, che tanto c’è poco da dire. Nei pressi di un paesino della Sardegna, Bellesamanna, un vecchio pastore rifiuta offerte milionarie pur di non vendere la sua proprietà ad una società milanese intenzionata a costruire un resort turistico nell’area. La storia, basata su fatti realmente accaduti, fondamentalmente è tutta qui. Per questo capisco che non sia stato facile per Milani dirigere e co-sceneggiare un plot che si sviluppa in un lunghissimo lasso di tempo, ha pochissimi punti di svolta narrativa e un elevatissimo rischio di cedere alle lusinghe dei luoghi comuni. Che infatti inevitabilmente spuntano qua e là. 

Intendo dire che se da una parte hai Milano, un imprenditore del cemento e i quattrini e dall’altra una spiaggia da sogno in Sardegna,  un vecchio pastore omerico e l’ostinazione ambientalista, il rischio che la storia sia fagocitata dalla più elementare dicotomia buoni/cattivi è piuttosto alto. E infatti Milani si sforza per quasi tutto il film di non cedere a questo schematismo, e sembra sinceramente intenzionato a farci capire che la storia mica è così facile. Perché nella partita ci sono gli interessi di comunità spopolate, le opportunità occupazionali e persino i difficili rapporti interpersonali che formano la materia di cui è fatto ogni paese. Il vecchio Efisio, con i suoi inflessibili rifiuti, è dalla parte del giusto o con la sua cocciutaggine sta condannando a morte un territorio e le persone che lo abitano? L’imprenditore malinconico e ostinato che cita Leonard Cohen (!), legittimamente convinto che gli interessi della sua azienda possano coincidere con quelli della comunità locale, è davvero nel torto?

Non è un dilemma nuovo per la nostra cultura pop. Nel 1966, quando Adriano Celentano pubblicò Il ragazzo della via Gluck, singolo destinato a diventare un manifesto ambientalista, Giorgio Gaber uscì con La risposta al ragazzo della via Gluck, inaugurando un’inedita dialettica musicale sul tema dello sviluppo edilizio e delle sue ricadute sociali. Milani, conosce molto bene Gaber come sicuramente anche questo dibattito e, al di là delle posizioni dei due cantautori (che oggi – anche alla luce delle recenti inchieste sull’urbanistica a Milano – fanno un po’ sorridere), prova a restituire contemporaneità alla capacità del tema-cemento di dividere l’opinione pubblica italiana.

Per quasi tutta la sua durata, La vita va così è lo specchio di questo dilemma. Senza schierarsi apertamente, evitando di imporre una posizione netta, lascia che il dubbio si ritagli i suoi spazi nella mente dello spettatore. Questo fino alla comparsa dell’improbabile giudice-filosofa-veggente-aruspica. Da quel momento il didascalismo prende il sopravvento, il punto di vista del regista-sceneggiatore esonda e la favola approda in un porto disneiano che si poteva anche evitare. Anzi, si doveva evitare. I conflitti si dissolvono come bolle di sapone e tutti gli abitanti del paese, ovvero i buoni della storia (perché alla fine sì, cade il velo di finta imparzialità del narratore e la cesura tra buoni e cattivi diventa un solco insormontabile), finiscono allegramente in spiaggia, pacificati e dimentichi di ogni dilemma e di ogni opportunità perduta.
Così. De botto (cit.).
Con la magnifica Disciplina della terra di Fossati ad indorare una pillola cinematograficamente amarissima.

In definitiva, il film ha parecchi problemi. Il primo di ordine stilistico. Nel suo forzato tentativo di imparzialità, l’opera oscilla tra registro intimistico e grottesco senza imboccare con coerenza nessuna delle due strade. Si passa così dal tratteggiare con sensibilità la giovane coppia disoccupata e la loro frustrata ricerca di un futuro, alla banalizzazione dell’atteggiamento dei paesani, descritti dalle processioni al vecchio casale di Efisio girate come un teatrino dei pupi. Da un lato il tentativo di infondere umanità ai personaggi, dall’altro la riproduzione meccanica e ripetitiva di scenette che trascinano l’umorismo nel macchiettismo. Davanti alla macchina da presa (che non fa un movimento manco se ti ammazzi), scorrono il carabiniere, il farmacista, la mamma, i cacciatori, il vescovo… una rassegna di dozzinali personaggi da presepe dimenticati sulla mensola di un emporio cinese.

Tra queste scenette, ne ricordo una particolarmente emblematica perché attesta come da questa sciatteria non si salvi nessuno, neanche un personaggio potenzialmente centrale come il figlio di Efisio. Il giovane uomo che arriva da Londra, insieme a moglie e figli, con la faccia di uno che se l’è fatta a piedi da Piccadilly Circus a Ortisei, motivato a convincere l’anziano padre ad accettare l’offerta. E niente. Anche lui viene liquidato dal plot con un paio di battute sterili e ripetitive, inverosimili quanto il bacio che i figli schioccano sulle guance del vecchio nonno-pastore con una sincronia e simmetria degne di Wes Anderson, ringraziandolo non si sa bene per cosa. E se state pensando che non ho colto il simbolo delle nuove generazioni che ringraziano chi si batte la loro eredità immateriale, vi sbagliate. Contesto proprio il fatto che uno gira una scena mirando a Buñuel e finisce invece per realizzare una pubblicità del Mulino Bianco.

Ecco, il figlio di Efisio sintetizza l’elemento che mi ha più deluso. Ovvero l’inconsistente costruzione di tutti i personaggi, che galleggiano alla deriva negli spazi vuoti di una trama troppo esile per poterselo permettere. Le loro interazioni sembrano incidenti casuali che vengono risolti (o dissolti) con la stessa forza del caso che li ha creati. L’amica disoccupata passa dal tradimento al sostegno senza ombra di pentimento, la moglie di Efisio vive lontana dal marito e nessuno sa il motivo, la stessa figlia di Efisio (Virginia Raffaele) inspiegabilmente non ha una vita personale, il capocantiere (Aldo Baglio) viene predestinato ad una conversione che però avviene in maniera brusca e arida, la giudice (Geppi Cucciari) compare in mezzo alla piazza del paese mentre si guarda intorno come una psicopatica perché “vuole vedere la Sardegna” (cit.). Nella maggior parte dei casi i personaggi sono sagome di carta prive di una storia, di un tic, di una passione o un’abitudine, mentre quel poco che viene fuori è troppo intellettual-poetico per essere verosimile. Vedi la storia della madre-levatrice della giudice, che l’avrebbe portata ad assistere alla nascita della figlia di Efisio quando aveva quattro anni e lei le riconosce adesso lo stesso coraggio che… ma stiamo scherzando? È che è, The Witcher? Insomma, alla fine il risultato è che veniamo privati degli elementi necessari per comprendere le convinzioni, le motivazioni o la sensibilità dei personaggi. Insomma, per affezionarci a loro. Lontanissimi i giorni dei dialoghi tra il prof. Lipari e Triglia.

Difficile valutare le prove degli attori, che per lo più sembrano percorrere il sottile confine che separa una recitazione sobria da una recitazione spaventata. Abatantuono e Raffaele sono speculari, entrambi così misurati da trasmettere la sensazione di interpretare i loro personaggi con il freno a mano tirato per paura di imprimere loro una personalità. Aldo Baglio è divertente ma un po’ troppo spinto sul versante grottesco, mentre Geppi Cucciari offre una prova d’attrice così austera e rigida da sembrare pronta a liquefarsi in una pozzanghera argentea per riformarsi istantaneamente in Corte di Cassazione. Si parla molto bene – e giustamente – del protagonista, ma Giuseppe Ignazio Loi non è un attore e infatti interpreta molto bene sé stesso. Proprio per questo viene da chiedersi: perché non osare con un intero cast non professionista, o almeno privo di costì tanti attori noti, e azzardare un progetto più autentico, profondo e coerente con il tema del film? 

Ma ovvio: perché non avrebbe incassato neanche la metà di quanto ha realizzato in queste prime due settimane di programmazione. La scelta degli attori, la comicità facilissima e l’inconsistenza dei personaggi sono tre aspetti di un prodotto costruito per piacere. Per piacere a chi vuole stare senza pensieri, a chi in fondo non gliene frega granché di tutto quello che ho scritto. Di chi non vuole porsi problemi ed è contento perché ha rivisto Aldo che fa i versi di quando recitava con Giovanni e Giacomo (e caratterizzavano  comunque meglio i personaggi). Si compie così un piccolo paradosso: la critica alla speculazione edilizia arriva da un prodotto che è speculazione culturale, e le riunioni posticce di Abatantuono a Milano non le immagino molto diverse da quelle che hanno portato alla realizzazione del film. Certo, un film fa molto meno danno del cemento che sradica ulivi. Però a me resta in bocca il sapore amaro di una morale ambientalista, di una dichiarazione d’amore alla Sardegna e di una riflessione sociologica buttati lì, trattati con faciloneria per accontentare l’industria culturale.
Ma d’altra parte, io sono uno di quelli seduti accanto a Efisio.