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Roma città proibita. Il cinema di Mainetti alla prova del kung-fu movie.

22 Mar 2025 | Cinema

C’è una femme-fatale dall’implacabile kung-fu come Beatrix Kiddo  e un Marco Giallini che somiglia pure fisicamente a David Carradine (Kill-Bill, 2003). Poi c’è – manco a dirsi – un ristorante cinese da cui ci aspetteremmo di veder uscire Bombolo ed Enzo Cannavale (Delitto al ristorante cinese, 1981), e una location rurale in Cina che ricorda molto da vicino il paesello di Poe (Kung-fu Panda, 2008). A un certo punto ci tocca pure una passeggiata in vespa tra le strade di Roma che manco ve lo dico cosa ci sta a fare perché poche citazioni sono altrettanto sputtanate. In definitiva, se c’è una certezza su La città proibita, il nuovo film di Gabriele Mainetti, è che lui il citazionismo lo sa fare.

Mettiamo in chiaro le cose da subito: La città probita non è affatto un brutto film. Anzi. Agevolato dalla fotografia impeccabile di Paolo Carnera, dalla regia fluida di Mainetti che non teme confronti con il cinema d’oltreoceano e dalle oneste prove degli attori, il film scorre che è una bellezza. Si lascia guardare, diciamo. È beverino.
Pure troppo. 

Il problema vero de La città proibita è Lo chiamavano Jeeg Robot. Mainetti è un caso emblematico di artista che si è messo in croce da solo a causa di una prova d’esordio persino troppo riuscita. Con quel primo film ci aveva dimostrato che un altro cinema di genere era possibile, ed era possibile oggi ed era possibile in Italia. Che i supereroi potevano essere  personaggi dotati di umanità vera, vicino al nostro quotidiano, pronti per essere calati in una trama densa e articolata, in cui il colpo di scena è davvero imprevedibile. E invece La città proibita si ferma prima.

Se formalmente il film è riuscito, infatti, lo stesso non si può dire della trama, così lineare e priva di colpi di scena (veri, non telefonati) da non portare mai lo spettatore a quel “Oddio, e mo’?” necessario per cambiare il bitrate della sua attenzione. Ma non solo. Il film trascura del tutto la costruzione dei personaggi. Mei, la protagonista è bellissima, atletica e vendicativa. E basta. Non è simpatica, non è antipatica, non è seducente, non è carismatica, non ha sogni, non ha speranze, non ha desideri. È solo incazzata. Vive solo per la vendetta. Fortuna che **spoiler alert** le hanno ammazzato la sorella, sennò non c’aveva un cazzo da fare a giornate sane. La sua controparte speculare è ancora peggio: Mr. Wang è un villain-ragioniere, un cliché così stanco che persino il personaggio sembra non crederci ed essere sempre sul punto di farsi ammazzare pur di non trascinare per le lunghe un esito scontatissimo.

Giallini e la Ferilli sono ottimi interpreti, bisogna dirlo. Misurati, intensi, attenti alle sfumature. Probabilmente lo sarebbe anche Luca Zingaretti, se il suo personaggio non fosse costruito in modo così sciatto da essere poco plausibile. Ecco, oltre alla loro “scarsa tridimensionalità”, è il rapporto tra i personaggi l’elemento più debole di tutto il film. Poco credibile negli sviluppi, ancora meno nei comportamenti e nelle reazioni provocate dalla loro interazione… Sarebbe bello fare qualche esempio, ma dovrei spoilerare quel poco di sorprendente che anima il plot.
No, frega niente, spoilero.

RED ALERT SPOILER

Ma voglio dire… ti pare che trovi tuo padre ammazzato e sotterrato in mezzo a un campo e ricopri tutto perché uno ti dice che sennò mamma ci resta male? Ma che stai a di’? E tu Zingaretti, che stai con Sabrinona nazionale e poi così, de botto, senza che nessuno si accorga o sospetti nulla, ti innamori di una ragazzina cinese al punto da regalare il ristorante alla mafia cinese e a lasciare nella merda moglie e figlio traditi perché “adesso finalmente mi sento vivo?” Ripeto: ma che stai a di’? E tu figlio, che dopo aver scoperto tutto questo (compreso un attico zona Santa Maria Maggiore in cui quel tenerone di tuo padre si bombava la cinese tenendo – che caruccio – la tua foto sul comodino), dici che in fondo lo comprendi perché quel gesto avrebbe spezzato la comfort zone del tuo lavoro da cuoco e ti avrebbe costretto a costruirti una nuova vita… ma che state a di’ tutti quanti?

Un’altra nota a margine, che considero più un’occasione persa che un vero e proprio difetto, è la presenza degli africani nel film. Africani che avrebbero potuto rappresentare davvero un elemento di novità, una proiezione verso un kung-fu movie multietnico. E invece stanno buttati lì, sullo sfondo della trama, senza disporre di una funzione, di un tratto caratteriale, di un soffio vitale. Tappezzeria utile solo a far risaltare in modo didascalico la cattiveria di Annibale (Marco Giallini).

Insomma, al caro Mainetti si vuol bene perché è evidente che ci crede e che ci sa fare. Però ci piacerebbe tornare a vedere qualcosa di più sostanzioso, più innovativo e più all’altezza delle sue capacità. Aspetteremo fiduciosi il prossimo film, che – sfogliando l’elenco delle categorie di genere – ci aspettiamo essere di fantascienza. Guarda caso proprio a Piazza Vittorio c’è un portale esoterico che potrebbe tranquillamente rivelarsi uno stargate…