La rabbia è comprensibile, giusta e persino necessaria. In questi giorni unisce tutti, anche chi per indole o indolenza non ha saputo esprimerla a parole, con i gesti o attraverso la partecipazione ad una manifestazione di piazza. Come non pensare di bruciare tutto di fronte al caso di una ragazza di 22 anni uccisa dall’ex fidanzato? Come non aderire al rabbioso sconforto dopo aver avuto il tempo per sperare in un epilogo diverso da quello rivelato?
La rabbia è necessaria, dicevo: stimola l’attenzione delle istituzioni e delle forze dell’ordine, impone (di nuovo) il tema della violenza sulle donne nell’agenda mediatica e afferma l’esistenza stessa di un problema sociale che non si può omettere. La rabbia è però una reazione, non una soluzione. Nel lungo periodo sbiadisce e ci costringe ad affrontare la necessità di cercarla, una soluzione.
La violenza sulle donne è un tema di cui mi sono occupato nel 2016, in occasione di un corso condotto in ambito ASL per introdurre il marketing sociale (che NON è il social marketing e neppure ci somiglia). In sintesi, il mio compito era quello di offrire una panoramica sulle strategie necessarie per armonizzare le iniziative messe in campo per dare impulso al cambiamento sociale rispetto a specifici temi.
Passeggiando tra practices condotte in giro per il mondo, ho voluto approfondire e confrontare tre diversi progetti sulla violenza di genere. Tre progetti che – per motivi diversi – a distanza di dieci anni considero ancora interessanti.
MARD | India
MARD è una campagna intrapresa nel 2013 in India, e già per questo ha dell’eroico. Per la società indiana la violenza sulle donne rappresenta un problema strutturale, definito da un vero e proprio campionario degli orrori: se da noi i femminicidi sono soprattutto riconducibili a moventi sentimentali, in India le donne vengono uccise anche se sospettate di stregoneria o se il marito non è soddisfatto della dote con cui la moglie arriva alle nozze. Oltretutto i trend relativi a questi crimini mostrano una crescita che sconforterebbe pure Gandhi. Per chi volesse approfondire lo scenario, suggerisco questo link, tanto per farsi un’idea.
MARD ha origine da un evento di cronaca accaduto il 9 agosto 2012: l’omicidio dell’avvocatessa venticinquenne Pallavi Purkayastha per mano di un suo coetaneo che aveva tentato di violentarla. Nel 2013 l’attore e regista indiano Farhan Akhtar, sull’onda emotiva di questo episodio, promuove una campagna di sensibilizzazione sociale intitolata appunto MARD, che significa uomo (e infatti ha due bei mustacchi nel logo) ma è anche l’acronimo di Men Against Rape and Discrimination.
L’intento di Farhan Akhtar è descritto molto bene dallo slogan:
Everytime I look into the mirror, I want to see a man whose mother, sister, wife and daughter are proud to call their own.
Il concetto mi sembra chiaro: se gli uomini sono gli autori dei crimini, è tra gli uomini che bisogna intervenire, promuovendo una rinnovata sensibilità verso le donne. Se ognuno è nato da una donna, dobbiamo fare in modo di guadagnarci la stima e il rispetto di ogni donna.
La campagna negli anni ha acquisito una notevole eco, attraverso l’uso di testimonial (star di Bollywood in primis, di cui non riporto i nomi che tanto non li conosciamo), la presenza in eventi sportivi di primo piano, una efficace awareness cultivation via social network e anche una linea di merchandising che sembrava puntare a rendere il tutto molto cool. Trovo molto sensata l’idea che gli uomini si rivolgano ad altri uomini per promuovere il cambiamento sociale, attraverso una sorta di peer education che abbia al centro la rinnovata considerazione della donna. MARD cerca di diffondere il messaggio che rispettare una donna non è soltanto giusto, ma anche perfettamente coerente con l’immagine che un uomo dovrebbe avere di se stesso. A quanto pare un dato non scontato per la società indiana (e non solo).
A dieci anni di distanza dal lancio, MARD non sembra aver prodotto grandi risultati. Ad una analisi molto superficiale, mi viene da pensare che la sua efficacia sia stata limitata ai ceti più elevati (si può dire “borghesi”?) della popolazione indiana. Non possiamo dimenticare che in India il sistema delle caste, seppur formalmente eliminato, fatichi a dirsi effettivamente superato, e che larghissime fasce della popolazione vivono in una condizione di povertà e analfabetismo tale da renderle difficilmente esposte a tecniche di persuasione così raffinate. Sfogliare i profili social di MARD resta comunque un interessante affaccio su una modalità positiva e propositiva di sostenere la parità di genere e contrastare la violenza sulle donne.
HeForShe | Mondo
Se MARD è un progetto promosso da uomini per sensibilizzare altri uomini, il progetto HeForShe, avviato dalle Nazioni Unite nel 2014, fa un ulteriore distinguo: sono inizialmente le donne a promuovere un patto che punti ai pari diritti. HeForShe si occupa solo collateralmente di violenza sulle donne, concentrandosi soprattutto sul concetto di parità di genere nelle sue diverse accezioni.
(…) an innovative, inclusive approach that mobilizes people of every gender identity and expression as advocates and acknowledges the ways that we all benefit from this equality. HeForShe invites people around the world to stand together as equal partners to craft a shared vision of a gender equal world and implement specific, locally relevant solutions for the good of all of humanity.
Nell’ambito del Progetto sono state strette sinergie con istituzioni e con università, attivate collaborazioni con personaggi celebri (le più note sono state Emma Watson e Anne Hathaway, rispettivamente ambassador nel 2015 e 2017) e messi a disposizione kit dedicati a chi intende trasformarsi in “agente del cambiamento sociale”.
Nonostante varie critiche che gli sono state mosse negli anni, HeForShe mette al centro un messaggio importante: non si costruirà la parità di genere lavorando solo da un lato della barricata, né tanto meno alimentando la guerra tra Marte e Venere. Solo la coltivazione di uno spirito di collaborazione può lasciare intravedere risultati promettenti e duraturi.
Punto su di te | Italia
Se c’è una cosa che in Italia proprio non sappiamo fare, sarei già contento. Ma tra le cose che sappiamo fare peggio c’è il marketing sociale, che da noi praticamente non esiste: la maggior parte dei temi sociali vengono affrontati con un approccio esclusivamente comunicativo o pubblicitario, e i risultati si vedono. Emblematica in tal senso è Punto su di te: la campagna di Pubblicità Progresso contro la violenza e la discriminazione di genere, promossa nel 2013/2015.
L’esordio della campagna di comunicazione si basa sulla diffusione di un set di manifesti accomunati da diverse donne che, sguardo in camera, pronunciano via baloon frasi spezzate come “Quando torno a casa vorrei…”, “Quando cammino per strada mi piacerebbe…”, “Dopo gli studi mi piacerebbe…” e così via. Il tutto sotto l’egida del claim Le donne in Italia non possono esprimersi al 100%.
Il diabolico piano di Pubblicità Progresso è stato quello di affiggere i manifesti nelle grandi città per poi rilevare, qualche giorno dopo, le oscene o viturperose frasi scritte a pennarello dai beceri passanti. Il risultato sono affermazioni tipo “Dopo gli studi mi piacerebbe farmi mantenere”, “Quando torno a casa mi piacerebbe essere menata”, e così via. Un bottino di guerra che ha permesso a Pubblicità Progresso di denunciare la vergognosa considerazione che si ha della donna in Italia.
Alcune riflessioni che mi posi già dieci anni fa:
A) L’ideatore della campagna lascia il baloon mezzo vuoto per favorire il completamento delle frasi. Ma quale sarebbe dovuta essere la “corretta” conclusione di quei periodi? Nel senso: come si completa una frase come “Quello che chiedo alle istituzioni…” o “Quando cammino per strada mi piacerebbe…“? …leccare un gelato? …guardare le vetrine di un negozio? …disquisire di medicina con Ippocrate? Quale formidabile esercizio di narrazione dialogica avrebbe mai dovuto produrre un passante mentre aspetta il 360 barrato di fronte a queste frasi artatamente incomplete per non dimostrare la tesi di Pubblicità Progresso?
B) Qual è il cittadino medio che gira per strada con un pennarellone in tasca pronto a cedere all’irresistibile tentazione di scrivere perle di saggezza su un manifesto affisso ad una fermata del bus? Provate ad immaginare. Un docente universitario? Un operaio edile? Un impiegato del catasto? Una suora carmelitana? Cioè, tu inviti a compiere un atto vandalico e poi ti sorprendi che i vandali siano poco rispettosi delle condizioni della donna?
C) Focal point: a cosa serve? Voglio dire, una volta che hai denunciato le vessazioni a cui sono sottoposti i manifesti pseudo-femministi, una volta che hai decretato il vile e retrogrado atteggiamento della società italiana, cosa hai risolto? Hai contribuito alla diffusa indignazione, e poi?
Mi fermo alla luce di queste riflessioni per tirare le fila del ragionamento. Coltivare odio, acredine e cacce al capro espiatorio significa assecondare un approccio molto italiano, come direbbe Stanis La Rochelle. È una strada che non porta da nessuna parte, e soprattutto non contribuisce a quel cambiamento sociale di cui davvero abbiamo bisogno.
Dopo la rabbia arriva il momento di riunirci, di lavorare ad un’alleanza che muova alla ricerca di una soluzione perseguibile soltanto in chiave collaborativa e non oppositiva. Deposti isterismi e patetismi, sarà ora di capire come educare alle indispensabili soft skills i giovanissimi di oggi, perché imparino che i propri sentimenti e i propri istinti non sono l’unità di misura del mondo, ma la chiave per mettersi in relazione con il resto del mondo, nel sacro e inviolabile rispetto reciproco.

